A tu per tu con Drupi, ospite di City of Guitars a Locarno
Sarà uno dei protagonisti, sabato 9 settembre, del Locarno Music Weekend by City of Guitars Giampiero Anelli, in arte Drupi, cantante italiano che se in patria ha legato il suo nome alla fortunata stagione degli anni Settanta e Ottanta, nel resto del mondo è stato e continua ad essere uno dei simboli del pop Made in Italy. Uno status che Drupi cela dietro un carattere tranquillo, quasi schivo, poco incline alle polemiche e alla spettacolarizzazione cui è oggetto la musica leggera ma che non gli impedisce di conservare un legame schietto, diretto e spontaneo con il pubblico: uno stile, insomma, perfetto per il Locarno Music Weekend che gli offre l’occasione di tornare, dopo una lunga assenza, ad abbracciare il pubblico elvetico.
«È vero – confessa – un tempo la Svizzera era un Paese dove mi esibivo moltissimo. Poi però i management ai quali mi appoggiavo sono scomparsi e le occasioni sono diventare rare. Ed è un peccato perché nel resto d’Europa lavoro tantissimo: tra qualche settimana partirà infatti il mio nuovo tour con tappe in Slovenia, Rep. Ceca, Germania e molti altri Paesi…»
Suonare più in giro per l’Europa che Italia, sembra essere una caratteristica della sua carriera negli ultimi decenni…
«Sì, anche perché in Italia sono io, spesso, a tirarmi indietro. Non amo infatti certe trasmissioni e certi eventi in cui più che per cantare ti chiamano per parlare , dove devi atteggiarti a tuttologo, esprimendo opinioni anche su argomenti di cui ne sai poco. Se si parla di musica e se si fa musica allora ci sono, sennò declino. Poi però se dici no una volta o due non ti contattano più. Ma, in fondo, a me va bene anche così».
Lei ha iniziato la sua carriera in uno dei periodi più felici della musica pop. Cosa ricorda dei favolosi anni Settanta?
«Tante cose, perché la mia è stata una bella storia con degli esordi tribolati ma che poi è partita a razzo. Ho fatto un Sanremo per caso dove sono arrivato ultimo salvo poi ritrovarmi, due settimane più tardi, al primo posto della classifica di vendita in Francia. E da lì è stato un grande crescendo: per me ma anche per la musica italiana all’estero. A tal proposito debbo spezzare una lancia a mio favore. Dopo la bellissima parentesi di Modugno, Tony Renis e di quegli altri giganti che negli anni Sessanta avevano portato la musica italiana all’estero, la stessa, per molti anni, è poi passata sotto silenzio. Finché non sono arrivato io con Vado via che ha aperto una porta dalla quale sono poi transitati personaggi come Toto Cutugno, Umberto Tozzi, Al Bano, i Ricchi e Poveri: la produzione italiana, a partire dalle mie canzoni, è stata insomma rivalutata oltre frontiera dando il via ad un periodo felice».
Una delle sue caratteristiche è proporre canzoni dal taglio «bluesy» favorito dalla sua timbrica a tratti quasi «black». Però quando qualcuno ha provato ad accostarla al blues lei si è sempre tirato indietro…
«È una questione di etica. Io amo il blues. Però se parlassi del mio repertorio come quello di un bluesman mi sentirei un po’ inadeguato perché il blues, quello vero, è un’altra cosa. Certo l’imprinting iniziale viene da lì: ricordo che una volta, parlando con i miei autori, dissi loro che sarebbe stato bello avere una canzone alla Ray Charles: mi tirarono fuori Piccola e fragile. Però, ripeto, definire blues queste canzoni è esagerato».
Diceva che con Vado via è esploso un successo internazionale che l’ha portata, in alcuni Paesi, ad essere popolare tanto quanto i Rolling Stones. Se lo aspettava?
«No, anche perché tutto è accaduto in modo strano. Un giorno arriva uno dei miei autori che mi dice: “ho scritto un pezzo un po’ blues, Vado via, che mi piacerebbe proporre a Mimì (Mia Martini - ndr) per Sanremo. Tu che te la cavi bene con questa musica non avresti voglia di inciderla in un provino? Lo registrai, Mimì fu entusiasta e disse che l’avrebbe cantato all’Ariston. Poi cosa capitò non lo so: però quindici giorni prima di Sanremo lei decise che non avrebbe partecipato al festival. La casa discografica, a quel punto, per non giocarsi la presenza di quella sua canzone all’Ariston decise di farla cantare a me, anche se ero uno sconosciuto. E da lì è nata la mia fortuna: pensa che quel brano – arrivato ultimo – oltre a sbancare in Francia arrivò addirittura nella Top 30 statunitense. Un traguardo che la casa discografica ha festeggiato per mesi».
Dopo Francia e America è stata la volta dei Paesi dell’est Europa: come è nata questa avventura?
«Come spesso accade, ossia per caso. Avevo infatti uno zio comunista che mi raccontava di quel mondo oltre il muro, che, a suo dire, era un paradiso. In quel periodo mi offrirono un tour in Australia e, in contemporanea, un timido invito a partecipare ad un importante festival oltre cortina. Mi ritrovati a dover scegliere tra 20 ore d’aereo per andare agli Antipodi oppure verificare di persona, con un viaggio più corto, se mio zio aveva ragione. Optai per quest’ultima soluzione e lì scoppiò il finimondo: diventai un mito sviluppando con quei Paesi un legame, un amore che dura tutt’ora. In Polonia, soprattutto, oltre che una popstar diventai un simbolo: ai miei concerti si radunavano i contestatori del regime, spuntavano le bandiere e i manifesti di Solidarnosc tanto che qualche giornale scrisse – impropriamente – che erano stati Wojtyla, Walesa e Drupi a liberare la Polonia… Anche se io non ho fatto niente a parte cantare. Però la cosa è durata nel tempo e ancora oggi anche le nuove generazioni continuano a seguirmi e ad apprezzarmi».
Da allora sono passati tanti anni e successe tante cose. E la sua musica? È rimasta la stessa o si è adattata ai tempi?
«Adattarmi mai. Ho sempre fatto le cose in cui credo e che mi fanno provare delle emozioni, dei brividi. Poi è chiaro che nel tempo, anche se non te ne rendi conto, cambi: se vado ad ascoltare i miei primi pezzi infatti a stento mi riconosco. Ma non perché ho cercato di rincorrere le mode: è perché sono cambiato io, i miei gusti si sono evoluti».
Diceva che la tv di oggi le piace poco. E la musica?
«Non mi entusiasma. È diventata come una saponetta, un prodotto solo da vendere che insegue modelli effimeri e non dà l’opportunità agli artisti di crescere. Uno come Zucchero che ha inciso molti album prima di avere successo, ora non potrebbe più saltare fuori. Battisti oggi sarebbe definito inadeguato. In ciò che si produce oggi sento della professionalità, bei suoni ma trovo non ci siano idee, belle melodie. Tuttavia rimango fiducioso. E a rendermi tale è che nonostante tutto continuano a vendersi i dischi dei Beatles, dei Pink Floyd e di altri artisti del passato. Ciò sta a significare che quella fiamma non è morta e che prima o poi anche i giovanissimi scopriranno quella musica, a patto che gli si dia l’opportunità di conoscerla».
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